Da modello nella lotta al virus al nuovo lockdown:
come il Portogallo sta perdendo contro il Covid
Da modello nella gestione dell’emergenza coronavirus a quasi 500 contagi al giorno: il Portogallo sta vivendo una seconda ondata di contagi, soprattutto nell’area attorno alla capitale Lisbona, che è stato scelta come sede per la fase finale della Champions League. Cosa non ha funzionato? Ne abbiamo parlato con la dottoressa Federica Parlato, italiana impegnata in prima linea in Portogallo contro il virus.
POLITICA ITALIANA 23 AGOSTO 2020 17:26di Annalisa Cangemi
Il ‘modello Portogallo' ha mostrato le sue crepe. La risposta delle autorità alla pandemia ha prodotto ottimi risultati in una fase iniziale, tanto da far apparire lo Stato che si affaccia sull’Oceano Atlantico come un esempio efficace di lotta al virus. Per la fase conclusiva della Champions League la Uefa ha scelto l'Estádio do Sport Lisboa e Benfica (detto anche Estádio da Luz) di Lisbona, proprio perché la città era considerata tra le più sicure dal punto di vista sanitario. La finale, che si gioca oggi a porte chiuse, vuole essere un omaggio da parte del governo al personale sanitario che in questi mesi si è impegnato per contrastare la crisi del coronavirus.
Il governo portoghese aveva dichiarato lo stato d'emergenza il 18 marzo, quando i casi erano ancora limitati. Le scuole sono state chiuse a metà marzo e non hanno mai riaperto, tranne che per gli studenti dell’11esimo e 12esimo anno delle superiori, che quest’anno dovevano sostenere gli esami. E così i ragazzi dai 16 ai 17 anni dal 18 maggio sono tornati tra i banchi. Dal 1 giugno hanno aperto invece asili nido, scuole materne e attività di doposcuola, con
l’obbligo, dai 6 anni in su, di indossare la mascherina negli spazi chiusi.
Probabilmente il Portogallo ha avuto più tempo per organizzarsi, rispetto a Paesi come l’Italia (il Paese lusitano ha avuto un vantaggio di 3 settimane rispetto all’Italia, lì il primo caso è stato individuato il 2 marzo). E mentre la Spagna a metà aprile faceva i conti con un tasso di mortalità di 385 per milione di abitanti, in Portogallo il tasso di mortalità era di 52 decessi per milione di abitanti.
Negli ultimi mesi però, dopo la conclusione del lockdown nazionale e la riapertura delle frontiere, i casi positivi sono nuovamente aumentati, e vanno ora a un ritmo di circa +250 al giorno. Un’inversione di tendenza che ha costretto il governo a ricorrere a soluzioni drastiche.
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Già da qualche settimana sono arrivate misure di contenimento più severe. I blocchi interessano soprattutto i dintorni della Capitale: nella ‘Grande Lisbona’, agglomerato urbano che conta circa 2 milioni di abitanti, la maggior parte degli spazi commerciali, esclusi i ristoranti, dovrà chiudere entro le 20; niente vita notturna, bar e discoteche – il ballo è vietato – dovranno chiudere alle 20 nell’area di Lisbona, all’1:00 nel resto del Paese; mentre sono vietati gli assembramenti di oltre 10 persone.
In questo Paese di circa 10 milioni di abitanti, molti dei quali sono anziani (il 22% ha più di 65 anni), se il numero di nuovi casi quotidiani a inizio maggio era sceso a 100, nel mese di luglio si sono registrati tra i 300 e i 400 casi quotidiani, con picchi di oltre 500 nuovi contagi in un giorno. In totale ad oggi i casi di Covid-19 hanno superato i 55mila, le vittime sono oltre 1790. Se confrontato con la vicina Spagna (che ha un numero di abitanti 10 volte più alto di quelli del Portogallo) il numero totale di casi non arriva al 15% di quelli conteggiati dal governo di Madrid.
Il premier Antonio Costa ha invitato i turisti a visitare il Paese. Per rassicurare i viaggiatori già da giugno è stato implementato il marchio ‘Clean&Safe’, introdotto da Turismo de Portugal, l’Autorità Nazionale del Turismo, che permette di individuare quelle strutture che hanno adottato misure con elevati standard di sicurezza.
Eppure a fine giugno la Spagna ha riaperto i confini con gli altri Paesi dell’Ue, ma ha mantenuto il blocco con il Portogallo fino al 1 luglio. E il Regno Unito aveva inserito il Portogallo nella lista dei Paesi considerati a rischio: i cittadini britannici di ritorno dal Paese all’estrema propaggine occidentale dell’Europa dovevano trascorrere un periodo obbligatorio di quarantena dopo il rientro a casa, obbligo che è caduto il 20 agosto, dopo che si è registrato un lieve calo dei contagi. Cosa è successo dunque negli ultimi mesi? Cosa non ha funzionato e quale lezione invece potremmo imparare?
La testimonianza di un medico italiano a Lisbona
Federica Parlato, 30 anni, specialista in medicina interna, italiana, racconta a Fanpage.it come ha lavorato in prima linea in questi mesi nel reparto di terapia intensiva all’ospedale Santa Maria, il più grande di Lisbona: "È stato veramente difficile per me, da italiana all'estero, osservare cosa stava succedendo in Italia già dal 20 febbraio, e come questo veniva percepito dalla gente qui in Portogallo. C'era un po' processo di ‘rimozione', come quello che avveniva negli italiani che guardavano alla Cina a gennaio. Il governo però si è mosso in anticipo anche perché c'è stata una grande pressione da parte dei sanitari, che avevano già potuto osservare come il sistema della sanità lombarda, un'eccellenza in Europa, fosse stato messo in ginocchio".
Federica Parlato lavora in Portogallo da 5 anni: "Per noi è stato comunque uno shock. Noi medici non siamo abituati a lavorare mantenendo questa distanza con i pazienti, persone che non possono vedere i propri familiari per un tempo indefinito, con le famiglie che ricevono le informazioni con il contagocce, solo telefonicamente, dai segretari. Ma ci tengo a dire che gli eroi di questa pandemia non sono solo i medici, ma anche gli amministrativi, che hanno fatto turni massacranti".
Ma se in principio la crisi è stata contenuta il merito è stato anche del personale sanitario, che con immensi sforzi ha retto l'onda d'urto: "In piena emergenza si poteva non lavorare solo se in malattia. Sono state sospese le ferie, i congedi di qualsiasi tipo, e i licenziamenti. Personalmente, da marzo ad agosto non ho mai avuto un fine settimana libero, con turni di 24 ore. Io ho trent'anni, ma con me lavoravano persone di sessant'anni che non si sono mai tirate indietro".
Eppure il governo portoghese non ha premiato i sacrifici fatti dal personale sanitario. Nessun riconoscimento in denaro, nessun bonus, ma il primo ministro Antonio Costa si è limitato ad annunciare che la finale della Champions League è dedicata a tutti i medici che si sono spesi durante la pandemia per combattere il virus. "Non aver avuto un riconoscimento economico non è una cosa che mi scandalizza, ma dire che il nostro premio è questa finale è un po' offensivo", commenta il medico italiano.
Come si spiega il ‘miracolo portoghese’
"All’inizio la curva epidemiologica non è cresciuta in modo esponenziale – spiega la dottoressa a Fanpage.it – e questo è stato possibile perché in Portogallo il sistema nazionale si è preparato in tempi record, proprio perché avevamo già gli esempi dell’emergenza sanitaria esplosa in altri Paesi, come Italia e Spagna".
"Il Portogallo è stato molto reattivo grazie alle cure primarie, ovvero i medici di famiglia, un sistema che è molto più strutturato rispetto a quello che c’è in Italia. Se nel nostro Paese i medici di famiglia lavorano in studi privati, per lo più singolarmente, e non hanno potuto far molto per arginare questa crisi, in Portogallo si sono organizzati. Hanno creato appositamente dei centri specifici a cui le persone potevano rivolgersi in presenza di sintomi sospetti di coronavirus. Sono strutture dedicate esclusivamente al Covid-19, e che sono attualmente in funzionamento". In questo modo in pratica è stato possibile isolare le persone infette, proteggere altri soggetti che presentavano diverse patologie, evitando un sovraccarico nei pronto soccorso, e limitando al minimo i ricoveri.
"C’è da dire che molti dei pazienti ricoverati non hanno bisogno di cure importanti. La necessità è invece quella di mantenerli isolati dal resto della comunità. Grazie a questi centri questo è stato possibile – ci spiega la dottoressa Parlato – In più i medici di famiglia hanno messo in piedi un sistema di ‘tracing’, che consisteva nel contattare personalmente tutti i casi sospetti e tutti i casi confermati che si trovavano in isolamento fiduciario a casa. Per questo nei primi tre mesi della pandemia sono riusciti a tenere sotto controllo l’emergenza".
Ma c’è di più: sono stati creati subito più posti negli ospedali. Al Santa Maria, nella zona Nord di Lisbona, la più moderna, è stato allestito un pronto soccorso dedicato, separando i malati Covid da tutti gli altri, con servizi di radiodiagnostica specifici, ma soprattutto aumentando notevolmente la capacità dei reparti di terapia intensiva. "Nel mio reparto abbiamo triplicato i letti – ci racconta il medico italiano – sono stati riconvertiti in reparti Covid altri reparti, che in quel momento non lavoravano, come quello di chirurgia vascolare". Tutto questo è stato possibile anche grazie a ingenti finanziamenti, come i soldi donati da Cristiano Ronaldo, che ha dato un milione di euro agli ospedali portoghesi: il campione e il suo agente, Jorge Mendes, hanno finanziato durante il lockdown tre unità di terapia intensiva: due nell'ospedale Santa Maria a Lisbona (20 nuove postazioni) e uno all’ospedale Santo Antonio a Porto (15 posti letto aggiuntivi).
"Nel nostro ospedale in questo modo siamo riusciti a ricevere pazienti da altri ospedali, dalle zone periferiche di Lisbona o da altre zone del Portogallo. Avevamo trenta letti in terapia intensiva solo per i pazienti Covid, ma non li abbiamo mai riempiti tutti. In questo momento è stato perfino possibile chiudere una delle tre unità di terapia intensiva di cui disponevamo".
"Nel mio reparto poi ci sono stati zero contagi tra il personale sanitario. Noi tra l'altro abbiamo avuto fin da subito tutti i dispositivi di protezione, non abbiamo dovuto indossare i sacchi della spazzatura, come è invece successo in Spagna o in Italia, o in altre strutture più periferiche del Paese".
Il Covid-19 è prima di tutto un problema “sociale”
Dopo la fine del lockdown la curva è risalita. Secondo la dottoressa Parlato "c'è stato un eccesso di fiducia, le persone non sono riuscite a mantenere alti livelli di attenzione per prevenire la diffusione del virus. Questo secondo picco si è verificato però solo a Lisbona, e non nel centro città, ma nelle zone periferiche".
In Portogallo ci sono moltissimi immigrati, che hanno un legame molto forte con le ex colonie. Ci sono persone che vengono dall'Angola, da Capo Verde, dal Mozambico, che vivono spesso in condizioni precarie, in case sovraffollate, in cui si riuniscono famiglie numerose. "Non sono certo le tipiche persone che fanno ‘smart working', ma si tratta appunto di cittadini che non potevano lavorare da remoto. Per questo la seconda ondata del virus ha colpito di più persone provenienti da quei Paesi o cittadini appartenenti a uno strato sociale più basso. Se le persone hanno come primo obiettivo nella vita dare da mangiare ai figli di certo non rimangono a casa in isolamento per senso civico, anche se hanno sintomi sospetti o sono in attesa dei risultati di un tampone".
Scende l'età media dei pazienti Covid
Anche questa seconda ondata in Portogallo è stata caratterizzata da un abbassamento dell'età media dei pazienti ricoverati. "Da metà giugno ci sono stati pazienti anche sotto i trent'anni in terapia intensiva. Sono state ricoverate molte persone sui vent'anni, che hanno avuto bisogno anche di ventilazione invasiva. I ragazzi dopo tre mesi a casa hanno iniziato a riunirsi e a partecipare a feste. Con l'estate è normale che questo accada, quelli che viaggiano e si spostano di più sono appunto i giovani. Anche le manifestazioni per la morte di George Floyd sono state molto sentite, hanno influito a favorire assembramenti. Ma non ci dobbiamo illudere. In autunno l'età media dei pazienti contagiati tornerà a salire".
Annalisa Cangemi
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