Attività fisica durante la malattia, legittimo il licenziamento:
È legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente che durante la malattia svolga attività fisica, ponendo così in essere un comportamento imprudente e che lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro. Questo è quanto deciso dalla Corte Suprema di Cassazione con la Sentenza n. 13676 del 2016.
E di licenziamento per giusta causa in caso di attività fisica durante la malattia, ci parla anche l’articolo pubblicato oggi (6.7.2016) dal Sole 24 Ore (Firma: Giampiero Falasca; Titolo: “Incompatibili malattia e attività fisica”) che vi proponiamo.
Ecco l’articolo.
Il dipendente che durante il periodo di malattia (dovuta a discopatie e a lombalgie curate chirurgicamente) assume una condotta molto imprudente per la propria salute (consistente nel sollevamento da solo di 3 bombole di gas da 30 chilogrammi e di una quarta da 40 chili, con l’aiuto di un collega) viola il dovere di lealtà e correttezza nei confronti dell’azienda. Questa violazione compromette in maniera irrimediabile il rapporto con l’azienda e consente il licenziamento per giusta causa.Con questa decisione la Corte di cassazione (sentenza 13676/2016) ha rigettato il ricorso promosso da un lavoratore che è stato licenziato per essere stato scoperto a sollevare delle bombole di gas durante il periodo di assenza per malattia.La sentenza della Suprema corte ricorda che, in tema di licenziamento per giusta causa, il dipendente deve astenersi dal porre in essere non solo le condotte espressamente vietate dalla legge o dal Ccnl, ma deve avere l’attenzione di evitare ogni condotta che, per la sua natura e per le conseguenze che può comportare, risulti oggettivamente in contrasto con gli obblighi connessi al rapporto di lavoro.In altre parole, il dipendente deve osservare i doveri di correttezza e buona fede, previsti dagli articoli 1175 e 1375 del codice civile, anche nelle condotte extralavorative, allo scopo di non arrecare danno al proprio datore di lavoro.Non basta la violazione di tali doveri, prosegue la sentenza, per giustificare il recesso in tronco dal rapporto di lavoro; è necessario altresì che la condotta illecita si traduca in una grave negazione dell’elemento fiduciario che deve caratterizzare il rapporto di lavoro, tenuto conto delle circostanze in cui questa è stata realizzata, del grado di affidamento richiesto dalle mansioni del dipendente, e dell’intensità dell’elemento intenzionale.La compromissione dell’elemento fiduciario, chiarisce ancora la sentenza, si verifica anche quando la condotta del lavoratore possa far ritenere, per la sua gravità, che la prosecuzione del rapporto di lavoro possa risultare pregiudizievole per gli scopi aziendali.Con riferimento al caso sottoposto alla propria attenzione, la Corte sottolinea che tali parametri normativi e giurisprudenziali sono stati correttamente applicati dai giudici di appello e, quindi, conferma la decisione del grado precedente, che aveva convalidato il recesso.La sentenza precisa, inoltre, che la condotta del dipendente non deve considerarsi come una forma di violazione del dovere di fedeltà ma, piuttosto, è riconducibile alla nozione di slealtà, in quanto consente di mettere in dubbio la correttezza dei rapporti futuri tra il lavoratore e l’azienda e compromette l’elemento fiduciario del rapporto.
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