Falso ideologico, via libera al licenziamento del dipendente
Redazione 15
giugno 2018 0 Comments
La Sezione Lavoro
della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 15640 del 2018,
ha reso il seguente principio di diritto: “Via libera, per falso ideologico, al
licenziamento del dipendente della Asl, che dichiara di aver esaminato dei
campioni di molluschi in realtà analizzati dagli stessi allevatori. La Corte
d’appello aveva negato la legittimità del licenziamento in assenza di danno
all’azienda, la Cassazione ricorda però che il dirigente è tenuto ad adempiere
alle funzioni pubbliche con disciplina e onore in nome dell’immagine della Pa”
(dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 15.6.2018).
Vediamo insieme i
fatti di causa.
La Corte di Appello
di Venezia ha accolto il reclamo proposto, ex art. 1, comma 58, della legge n.
92 del 2012, da …. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che
aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato al ricorrente dall’Azienda
Unità Locale Socio Sanitaria n. …. della Regione Veneto in data 23 febbraio
2015.
La Corte territoriale
ha premesso in punto di fatto che il reclamante era stato indagato per il reato
di falso ideologico continuato, commesso nella sua qualità di responsabile
della Unità Operativa Molluschicoltura, per avere falsamente attestato nei
verbali di campionamento redatti di avere proceduto al prelievo quando, in
realtà, i campioni analizzati erano stati consegnati dagli stessi titolari
degli allevamenti. All’udienza preliminare dell’8 luglio 2014 aveva chiesto
l’applicazione della pena ed il processo penale si era concluso con sentenza
pronunciata ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.
Il procedimento
disciplinare, iniziato e sospeso il 4 febbraio 2014, era stato prontamente
riavviato e nella contestazione la condotta era stata riferita ai “gravi fatti
illeciti di rilevanza penale” di cui all’art. 8, comma 11, punto 2 lett. b) del
CCNL 6 maggio 2010 per la Dirigenza Medico Veterinaria del Servizio Sanitario
Nazionale. Il licenziamento, invece, era stato irrogato con preavviso in
relazione all’art. 6, comma 3, lett. a) e f) dello stesso CCNL.
Il Giudice
dell’impugnazione ha escluso profili formali di illegittimità del procedimento
disciplinare ed ha evidenziato, per quel che qui rileva, che, sebbene la
notizia dell’infrazione fosse stata acquisita dalla struttura già in data 11
novembre 2013, tuttavia si ravvisava solo la violazione del termine di cinque
giorni imposto per la trasmissione degli atti all’Ufficio per i procedimenti
disciplinari, dalla quale non derivava la decadenza dall’esercizio del potere.
Per il resto i termini erano stati rispettati giacché al momento della
sospensione non erano ancora spirati i 120 giorni per la conclusione del
procedimento.
Premesso che la
diversa valutazione della gravità dell’addebito operata al momento della
irrogazione della sanzione non costituisce violazione del principio di
immutabilità della contestazione, la Corte ha evidenziato che lo stesso datore
di lavoro aveva escluso che la condotta integrasse l’ipotesi prevista dall’art.
8, comma 11 n. 2 lett. b) del contratto, e detta valutazione di limitata
gravità trovava riscontro anche nel fatto che l’Azienda, nonostante la
definizione del processo penale con sentenza di applicazione della pena, non
aveva ritenuto di dover sospendere il dirigente.
Ha aggiunto che il
licenziamento con preavviso era stato intimato al di fuori delle ipotesi
contrattualmente previste, in quanto il comportamento negligente dal quale
derivi un grave danno all’azienda consente solo di sanzionare il dipendente con
la sospensione dal servizio.
Non a caso agli altri
dipendenti coinvolti nella medesima indagine penale era stata irrogata una
sanzione conservativa, inflitta anche al responsabile dell’attività di
controllo dei prodotti della pesca e derivati, circostanza questa che privava
di spessore l’argomento speso dall’amministrazione reclamata, a detta della
quale andava apprezzato il ruolo rivestito dal … nell’ambito dell’unità
operativa.
La Corte ha anche
evidenziato che il reclamante si era difeso sostenendo di essersi attenuto,
quanto alle modalità di campionamento, alle direttive impartite dal Direttore
del Servizio in un contesto di emergenza, determinato dal venire mendo degli
strumenti necessari per procedere direttamente al prelievo.
La condotta, inoltre,
non aveva messo in pericolo l’incolumità o la salute pubblica, tanto che in
sede penale si era ritenuto di contestare unicamente ai pubblici ufficiali il
falso ideologico. Era altresì emerso che la Giunta Regionale del Veneto, sia
pure dopo la proposizione del reclamo, aveva consentito il prelievo dei
campioni da parte dell’operatore del settore alimentare, confermando che il
campionamento diretto non incide sulla sicurezza alimentare.
La sola circostanza
della falsità ideologica dei verbali non poteva giustificare il licenziamento,
innanzitutto perché la stessa azienda aveva escluso che integrasse un grave
fatto illecito di rilevanza penale ed inoltre per la ragione che non si era
verificata alcuna induzione in errore del datore di lavoro, ben consapevole di
non disporre degli strumenti necessari per il campionamento diretto. In
sintesi, ad avviso della Corte territoriale, si poteva addebitare al … solo un
comportamento negligente, per non avere colto la necessità di dare atto nel
verbale delle effettive modalità di prelievo dei campioni. Doveva, però,
considerarsi anche che il reclamante, in servizio dal 1989 aveva sempre
ricevuto valutazioni positive ed aveva continuato a svolgere la sua attività in
pendenza del processo penale, dimostrando di essere in grado di adempiere
correttamente i propri compiti, nonostante le violazioni commesse. Andava
infine valorizzata la condotta tenuta dalle parti dopo la contestazione perché
il dirigente si era offerto di riparare il danno cagionato all’azienda, che
aveva accettato senza riserve la somma di Euro 18.000,00.
Sulla base di dette
considerazioni la Corte territoriale, dichiarata l’illegittimità del
licenziamento e, ritenuto applicabile l’art. 18 della legge n. 30 del 1970 nel
testo antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 92/2012, ha
condannato la reclamata a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in
precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso a titolo di risarcimento del
danno le retribuzioni maturate dalla data di cessazione del rapporto sino alla
effettiva riammissione in servizio, con rivalutazione e interessi legali.
Avverso la sentenza
d’appello ha proposto ricorso per cassazione la società datrice di lavoro che
veniva accolto dalla Corte Suprema con il principio di diritto sopra enunciato.
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