Reintegro del lavoratore licenziato per manifesta
insussistenza del fatto
Redazione 14 Marzo 2019 0 Comments
La Sezione Lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 7167 del 2019, ha stabilito il seguente principio
di diritto: “Solo la manifesta insussistenza del fatto giustifica il reintegro
del lavoratore” (dal Quotidiano del Diritto del Sole 24 Ore del 14.3.2019).
Ecco i fatti di causa.
Con sentenza n. 3891/2017, pubblicata il 20.7.2017, la Corte di appello di
Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che aveva ritenuto il
recesso datoriale viziato da motivo illecito determinante), escludeva che il
licenziamento intimato da … s.r.l. ad …. In data 30.6.2014 potesse considerarsi
assistito da un giustificato motivo oggettivo, osservando come il reparto, cui
la medesima era addetta alla data del provvedimento, fosse stato bensì
soppresso in conseguenza di un riassetto organizzativo e produttivo che ne
aveva previsto la “esternalizzazione”, ma la lavoratrice vi fosse stata
collocata, proveniente da altro reparto, in esubero rispetto all’ordinario
livello occupazionale: ciò che determinava l’insussistenza di un effettivo
collegamento tra il riassetto e la soppressione del posto di lavoro e, con
essa, stante l’evidente arbitrio ravvisabile nella condotta datoriale, la
manifesta insussistenza del fatto integrante il dedotto giustificato motivo
oggettivo, con conseguente applicazione della tutela di cui al comma 4 della
L.n. 300/70.
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società datrice
di lavoro che veniva però rigettato dalla Corte Suprema.
Ad avviso della Corte Suprema, l’indagine che deve compiere il giudice di
merito al fine di stabilire se una data fattispecie di licenziamento per
giustificato motivo oggettivo sia o meno caratterizzato dalla “manifesta
insussistenza del fatto”, si compone di due momenti concettualmente distinti ma
coesistenti nell’unitarietà dell’accertamento giudiziale: nel senso che, con il
primo di essi, che attiene alla struttura tipica della specifica fattispecie
espulsiva, il giudice ha chiamato ad accertare “il fatto” del licenziamento in
ciascuno degli elementi che concorrono a delinearlo, e pertanto, a procedere a
un’opera di ricognizione tanto della effettiva sussistenza di un processo di
riorganizzazione o riassetto produttivo, come della necessaria sussistenza del
nesso di causalità fra tale processo e la perdita del posto di lavoro ed
inoltre dell’impossibilità per il datore di lavoro di ricollocare il proprio
dipendente nell’impresa riorganizzata e ristrutturata; con il secondo, il
giudice è chiamato ad una penetrante analisi e valutazione di tutte le
circostanze del caso concreto, quale unico mezzo per determinare l’eventuale
riconduzione del fatto sottoposto al suo esame all’area di una insussistenza
che deve porsi come “manifesta” e cioè contraddistinta da tratti che ne
segnalano, in modo palese, la peculiare difformità rispetto alla mera assenza dei
presupposti del licenziamento. A tali criteri di indagine – ha concluso la
Cassazione – si è correttamente uniformata la Corte d’appello di Roma nella
sentenza impugnata, avendo preso in considerazione non soltanto l’intervenuto
riassetto organizzativo e produttivo dell’impresa, pacificamente sussistente e
incontestato, ma anche la questione dell’esistenza di un nesso effettivo fra
tale riassetto e la soppressione del posto di lavoro; e avendo, sul rilievo
della strumentale e sovrabbondante collocazione della lavoratrice (come di
altri colleghi) in un reparto destinato in breve volgere di tempo ad essere
soppresso, accertato la palese elisione di tale legame e, con essa, una
condotta datoriale obiettivamente e palesemente artificiosa, in quanto diretta
all’attribuzione e all’esercizio di un potere di selezione arbitraria del
personale da licenziare, come tale integrante il presupposto per l’applicazione
della tutela di cui al comma 4.
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