Riposi giornalieri per allattamento e diritto alla
pausa pranzo
Redazione 24 Aprile 2019 0 Comments
Il Ministero del Lavoro, con Interpello n. 2 del 2019, ha risposto ad un quesito avanzato
da ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale,
relativamente al diritto alla pausa pranzo e alla conseguente attribuzione del
buono pasto, ovvero alla fruizione del servizio mensa, da parte delle
lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri “per allattamento” di cui
all’articolo 39 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 e successive
modificazioni.
Il predetto articolo 39 stabilisce il diritto della lavoratrice, durante il
primo anno di vita del figlio, a due periodi di riposo di un’ora ciascuno,
anche cumulabili durante la giornata, quando l’orario lavorativo è superiore
alle sei ore; nel caso di orario giornaliero inferiore a sei ore, la
disposizione prevede invece una sola ora di riposo. La natura di tali riposi è
chiarita dal comma 2 dello stesso articolo 39, che stabilisce che essi debbano
essere “considerati ore lavorative agli effetti della durata e della
retribuzione del lavoro”.
Tanto premesso, ISPRA ha chiesto di sapere se “in caso di una presenza
nella sede di lavoro pari a 5 ore e 12 minuti, dovuta alla fruizione – da parte
della lavoratrice – dei riposi giornalieri, si debba procedere a decurtare i 30
minuti della pausa pranzo, come se avesse effettivamente completato l’intero
orario giornaliero, atteso che i riposi in questione sono considerati dalla
legge ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro.
Per altro verso, si chiede altresì di conoscere se la dipendente abbia la
facoltà di rinunciare alla pausa pranzo e/o al buono pasto, al fine di non
vedere decurtate le ore considerate come lavoro effettivo”.
Ecco la risposta del Ministero.
L’articolo 8 del d.lgs. n. 66/2003 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e
2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di
lavoro) stabilisce che “Qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il
limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le
cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro,
ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione
del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.”.
Come si evince dal dato letterale della disposizione appena riportata,
la ratio è quella di consentire al lavoratore che
effettui una prestazione lavorativa superiore a sei ore di recuperare
le proprie energie psicofisiche durante un lasso temporale (intervallo),
prestabilito dalla contrattazione collettiva. La scelta stessa del termine
“intervallo” da parte del legislatore del 2003 lascia presupporre, da un punto
di vista logico, la successiva ripresa dell’attività lavorativa dopo la
consumazione del pasto o la fruizione della pausa da parte del lavoratore.
Le due disposizioni innanzi richiamate (art. 8 del d.lgs. n. 66/2003 e art.
39 del d.lgs. n. 151/2001) sono state concepite dal legislatore con scopi ben distinti:
– l’articolo 39 è volto a favorire la conciliazione tra la vita
professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice
madre il diritto ad una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata
della giornata lavorativa) per accudire il figlio, entro il primo anno di età.
La norma non specifica la collocazione temporale dei riposi, limitandosi a
stabilire che, qualora siano due, essi possano anche essere cumulati;
– l’articolo 8 relativo, più in generale, all’organizzazione dell’orario di
lavoro, stabilisce il diritto del lavoratore ad una pausa, finalizzata al
recupero delle energie e all’eventuale consumazione del pasto. Il dettato
normativo e la ratio della disposizione non sembrano lasciare
dubbi in merito al riferimento ad un’attività lavorativa effettivamente
prestata, ben diversa dalla fattispecie in esame in cui il legislatore, volendo
comprensibilmente riconoscere un favor alla lavoratrice madre, abbia inteso
riconoscere le ore di permesso ai fini retributivi e del rispetto dell’orario
(normale) di lavoro.
Ciò premesso, un’analisi coordinata delle due disposizioni richiamate,
considerata la specifica funzione della pausa pranzo, che la legge definisce
come “intervallo”, porta ad escludere che una presenza effettiva della
lavoratrice nella sede di lavoro pari a 5 ore e 12 minuti dia diritto alla
pausa ai sensi dell’articolo 8 del d.lgs. n. 66/2003. Conseguentemente, non
si dovrà procedere alla decurtazione dei 30 minuti della pausa pranzo dal
totale delle ore effettivamente lavorate dalla lavoratrice.
Il presente parere recepisce, peraltro, le indicazioni del Dipartimento
della Funzione Pubblica che, con nota del 10 ottobre 2012 (n. 40527), aveva già
fornito risposta all’ISTAT e all’ARAN evidenziando che “il diritto al buono
pasto sorge per il dipendente solo nell’ipotesi di attività lavorativa
effettiva dopo la pausa stessa”.
Da ultimo, a puro titolo informativo, si fa presente che ad analoghe
conclusioni è giunta anche l’Agenzia delle Entrate che ha fornito, in data 21
gennaio 2013, istruzioni ai fini della concessione del buono pasto ai propri
dipendenti, individuando come presupposti imprescindibili l’effettuazione della
pausa e la prosecuzione dell’attività lavorativa dopo la stessa.
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