giovedì 9 luglio 2015

Muglia la furia

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domenica 5 luglio 2015

L’ESAME DI MATURITA', CALVINO, LEVI E L'AMIANTO.





Ce ne sarebbero di cose da raccontare: semplificazioni che  vengono cancellate in nome della semplificazione (ormai è un mantra), altre novità che come tali vengono spacciate e tanto altro ancora su Jobs Act, Monfalcone, Ilva... ma non ci voglio tornare su perché di questo ho già scritto “peste e corna”. Oggi voglio restare sulla cronaca ma di tutt’altro genere: l’esame di maturità 2015 e la prova di italiano.

Che c'entra il tema di italiano per l'esame di maturità con la salute e la sicurezza sul lavoro? Niente se non che è stato Italo Calvino l'autore proposto ai maturandi. Primo Levi lo fu nel 2010 e sia Italo Calvino che Primo Levi, hanno  avuto modo di confrontarsi con il tema dell’amianto e la sua tragedia.

Di Kafka, ispettore dell’istituto austriaco per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (http://muglialafuria.blogspot.it/2015/04/fk-chi-era-costui-e-con-la-sicurezza.html) e del suo tentativo imprenditoriale di produrre manufatti di amianto (http://muglialafuria.blogspot.it/2015/05/lamianto-e-la-metamorfosi-di-kafka.html), ricorderete.  Meno noti sono gli interventi carichi di drammaticità di Primo Levi e Italo Calvino che raccontano la loro esperienza con l'amianto.

Amianto a Balangero: la miniera nelle parole di Primo Levi e Italo Calvino.
Un racconto autobiografico e un reportage giornalistico: molto prima del 1992 - anno in cui la legge ha messo al bando la fibra killer - due fra i maggiori narratori del Novecento colsero con la loro sensibilità la violenza mortale dell'asbesto. Scenario dei loro scritti la cava piemontese, colta come un girone dantesco.
Primo Levi ambientò nella miniera il racconto a sfondo autobiografico “Nichel” contenuto nella raccolta “Il sistema periodico” (1975).  Lo scrittore torinese vi aveva infatti lavorato nel novembre del 1941, appena conseguita la laurea in chimica.
Italo Calvino nel 1954 venne inviato a Balangero, come redattore del quotidiano l'Unità, per descrivere una vertenza dei lavoratori della miniera contro la proprietà. Su tale vertenza e sulle condizioni di lavoro degli operai Calvino scrisse poi un lungo reportage intitolato “La fabbrica nella montagna”.
A questo punto vi lascio alla lettura di questo breve saggio pubblicato dall’INAIL.  

Levi: i giorni a Balangero come esperienza di vita.
Quelli rievocati da Primo Levi nel capitolo “Nichel” de “Il sistema periodico” sono pochi giorni del novembre 1941 quando, neolaureato al Politecnico – su incarico di un tenente del Regio Esercito – si trovò a lavorare presso quella che, negli anni seguenti, sarebbe diventata la più grande miniera d’amianto in Europa. Il libro è suddiviso in ventun capitoli, ognuno dei quali ha per titolo un elemento naturale: una “versione letteraria” del sistema di Mendeleev che l’autore utilizza in chiave metaforica per raccontarsi – tra osservazione, rievocazione e memoria – nelle sue due “anime” di chimico e scrittore. Dagli studi maturati negli anni del fascismo alle drammatiche vicende della guerra, Levi pone al centro del romanzo il tema del lavoro come momento di esperienza determinante per capire le cose e gli uomini: un arco ampio di vita all’interno del quale i giorni passati a Balangero assumono una portata formativa di rilevanza essenziale.

Calvino: il reporter che descrisse lo sciopero alla cava.
Totalmente diverso – almeno nella forma – è l’approccio di Calvino, che arriva nella miniera piemontese come redattore del quotidiano “l’Unità”, inviato a seguire uno sciopero di 40 giorni dei lavoratori della cava dopo la soppressione, da parte dell’azienda, di un premio di produzione. “La fabbrica nella montagna” è il reportage che egli realizzò (probabilmente anche spinto dalle suggestioni dell’amico Levi): pagine di scrittura emblematica dove gli eventi descritti sono colti ben oltre la loro portata storica e diventano, alla fine, materia di denso valore esistenziale.
Recuperare “qualcosa di utile” dai materiali di scarto. “Il lavoro che (il tenente del Regio Esercito, ndr) mi propose era misterioso e pieno di fascino. “In qualche luogo” c’era una miniera, dalla quale si ricavava il 2 per cento di qualcosa di utile (non mi disse cosa) ed il 98 per cento di sterile, che veniva scaricato in una valle accanto. In questo sterile c’era del nichel: pochissimo, ma il suo prezzo era talmente alto che il suo recupero poteva essere preso in considerazione”. L’incarico che nel 1941 viene affidato al giovane chimico Primo Levi è, dapprincipio, carico di suggestione: cercare di estrarre nichel dal materiale di scarto dell’Amiantifera di Balangero (lo scrittore riuscì nell'intento, ma la tecnica necessaria era troppo dispendiosa e il progetto venne abbandonato).

La montagna colta come un girone dantesco.
Levi, uomo di scienza, si getta con autentica passione nel compito assegnato, malgrado le condizioni illegali imposte dall’ azienda che avevano vincolato il suo stipendio alla capacità di trovare una soluzione al problema. In “Nichel” lo scrittore descrive, così, la realtà che lo circonda con lucidità e rigore e, allo stesso tempo, compone con leggerezza – a tratti con ironia – l’intreccio di relazioni tra i lavoratori della miniera. Ma quello che emerge con maggior vigore dal racconto è il profilo della cava. Colta nella sua aspra – e ancora attualissima – fisicità, la montagna scavata a gradoni si mostra da subito agli occhi dello scrittore come un girone infernale di dantesca memoria. “In una collina tozza e brulla, tutta scheggioni e sterpi, si affondava una ciclopica voragine conica, un cratere artificiale del diametro di quattrocento metri: era in tutto simile alle rappresentazioni schematiche dell'Inferno, nelle tavole sinottiche della Divina Commedia – scrive Levi. Che non esita a descrivere con toni omerici, come “lavoro da ciclopi”, la fatica per strappare “un misero 2 per cento d’amianto” dalla roccia.

Quella cappa d’amianto come “neve cenerina”.
I pochi giorni passati a Balangero rimangono impressi per sempre nella coscienza di Levi, che coglie con trepidazione autentica lo sforzo terribile dei minatori. “L’operazione procedeva in mezzo ad un fracasso da apocalissi – racconta – in una nube di polvere che si vedeva fin dalla pianura”. Eccola, quindi, la polvere. L’amianto onnipresente che Levi descrive come una sorta di demone, asfissiante e ostile. “C’era amianto dappertutto, come una neve cenerina – ricorda – Se si lasciava per qualche ora un libro sul tavolo, e poi lo si toglieva, se ne trovava il profilo in negativo”. Tutto a Balangero sembra immerso in quella cappa d’amianto, la cui nocività la sensibilità di Levi sembra cogliere ben prima delle certezze scientifiche. “I tetti erano coperti da uno spesso strato di polverino, che nei giorni di pioggia si imbeveva come una spugna, e ad un tratto franava violentemente a terra”: descrizioni che rilette oggi – alla luce dei fatti violenti della cronaca, dei tanti processi e dei troppi morti – assumono il peso di una denuncia implacabile.
Ai pozzi il nome dei minatori che vi erano caduti dentro. La fatica dei minatori è l’elemento che turba, nel 1954, l’allora redattore de “l’Unità” Italo Calvino. Impegnato a documentare una vertenza sindacale presso l’Amiantifera, Calvino coglie con emozione il dramma degli operai costretti a vivere e a morire nella cava, e alla cui memoria venivano intitolati i pozzi nei quali erano caduti. Come il povero Bellezza “che di in cima al pozzo scivolò e d’un volo, senza che il ciglio di un gradino lo fermasse, precipitò sul fondo frantumandosi anche lui come l’asbesto diroccato dal suo piccone, e così gli altri quindici morti di infortunio in trentacinque anni di storia della cava”.

“Il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni”.
Anche nella cronaca di Calvino – come nella narrazione di Levi – emerge, a un certo momento, l’amianto, rappresentato come una presenza onnicomprensiva – soffocante e dolorosa – e dallo scontro per il salario l’attenzione del cronista si sposta inevitabilmente su quella nube opprimente, che lo stile limpido e incisivo dello scrittore descrive come viva, malvagia, famelica. “Ma non ce n’è di lepri nel bosco, non crescono funghi nella terra rossa dei ricci di castagno, non cresce frumento nei duri campi dei paesi intorno – scrive Calvino – c’è solo il grigio polverone d’asbesto della cava che dove arriva brucia, foglie e polmoni, c’è la cava, l’unica così in Europa, la loro vita e la loro morte”. Calvino scriveva queste parole nel 1954. La legge italiana avrebbe messo al bando l'asbesto 38 anni dopo.

Muglia La Furia

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